giovedì 19 aprile 2012

Fare una novella ha due tempi, secondo Pavese

30 nov. 1938
"1) Fare una novella ha due tempi. C'è un'acqua che s'intorbida, ci sono dei gesti violenti, dei sussulti, della schiuma; poi c'è una calma, una passività, l'acqua che trema si fa immobile, dirada, si schiarisce, e tutto traspare impreveduto. Il fondo e il cielo eccoli immobili."[...]
Cesare Pavese, da Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950.

Tutto questo, mi dico, fa pensare. In alcuni punti Pavese sembra rifarsi a una storia zen, alla dinamica oscura di un koan; alla raffigurazione di un evento naturale improvviso, al passaggio di un volatile sulla superficie di un lago. La fase dell'avvenimento o accadimento è dolorosamente naturale, non sempre controllabile o contenibile da una sequenza pianificata di eventi o di tattiche. Si è parte della struttura, del torbido, del disordine, dell'imprevisto e impreveduto (ancora più potente); a volte diretti artefici di quel disordine, parte del getto, il nostro stesso intento sarà parte plasmabile e non solo impulso formale ma elemento casuale e non sempre causale. Il movimento stesso, l'impulso ostinato della costruzione, potrebbe smuovere l'acqua e causarne l'impurità.  Pavese vedeva molto lontano e in profondità, e poco più avanti, continuando al punto II:
"Così nasce una novella: l'acqua scomposta si schiarisce tremando e si ferma".


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