giovedì 22 settembre 2016

Riflessioni sparse sul senso della pubblicazione, dell'autopubblicazione e della non pubblicazione (Parte II)



Dopo l'introduzione della parte prima, entrerei meglio nel vivo della riflessione, quindi: il senso della pubblicazione, in tutte le forme più o meno contemplabili. Una volta appurato che la scrittura faccia parte della mia vita, sia qualcosa come ho detto con cui fare i conti, da accudire con una certa responsabilità, che cosa farne, dunque? Condividerne i frutti, naturalmente. Il più in fretta possibile. Quando tutto sarà in ordine, ho bisogno di aprire il sipario e mostrare la scena a cui ho lavorato per mesi, o anche per giorni, per il tempo necessario a completarla nel migliore dei modi. Ho sistemato con cura le luci, l'arredo, lo spazio d'azione, i colori. Ogni parte del copione è stata studiata fin nel più piccolo dettaglio. Mi sono servito di scenografi impeccabili, per non parlare dei costumi. I miei personaggi sono affascinanti, eleganti, con delle storie pregne di drammi, di mistero, di grandi passioni. E come scendono a pennello quegli abiti e che acconciature! Adesso tutto questo deve essere visto. Alziamo il sipario! Non ne posso più! Per favore, signori. Si abbassino le luci. Tacciano le voci:
A questo punto mi fermo.
E parlo ancora per me, naturalmente. Quanto il mio processo di scrittura sarà relato con la sua condivisione? Con lo svelare l'interno del suo scenario? Intendo: quanto sarà condizionante l'urgenza di una condivisione? La sua indispensabilità? Mi inoltro ancora: quanto sarà davvero appagante l'atto dello scrivere,  il gesto più puro, successivo alla rottura del silenzio e quindi la fedeltà e l'abbandono al suo impulso, alla sua vocazione, al di là del fatto di poterlo o meno condividere, o anche di saperlo, in partenza, sicuramente condiviso? Questo appagamento dato dalla scrittura, quindi,  in questo esercizio creativo, potrebbe mai prescindere dalla sola idea della condivisione? E che senso avrebbe la mia vocazione, se non contemplasse una pur minima linea di sguardo, di riscontro o di ascolto condiviso? Farlo per se stessi cambierebbe tutto, non ci sarebbe gusto, non ci sarebbe gioco o vocazione, forse? Perderebbe di senso e di mordente, possibile anche questo. O forse sarebbe come studiare l'argomento di un libro sapendo che il giorno dopo avremo un esame, con una commissione severa, rispetto allo studiare quello stesso argomento di quel libro, sapendo che però nessuno mai ci interrogherà, semmai senza nemmeno frequentare un istituto scolastico dove acquisire attestati e metterci in gioco. Di sicuro le mie conoscenze saranno ugualmente arricchite dallo studio di quell'argomento, se in entrambi casi mi ci dedicherò, ma quanto starò davvero dentro, nella profondità di quello che avrò studiato, quanto me ne imprimerò senza la paura e il condizionamento di un confronto, come quello di un esame, quindi? Scrittura, allora, secondo questo ragionamento di partenza, sarebbe allora un moto naturale espressivo, mirato e murato nelle sue intenzioni alla sola condivisione, alla comunicazione e interazione, più o meno profonda, da instaurare necessariamente con altre persone, o forse mi sbaglio? Almeno come primo impulso, è mai possibile che uno scrittore non preveda un minimo riscontro? Può sembrare ridicolo, tutto questo, ma non proprio del tutto. La nebbia si addensa in ogni passaggio di questo percorso, e io allora cerco di muovermi con circospezione e prudenza.
Quindi, su questi primi elementi potremmo cominciare a inquadrare la scrittura come attività naturalmente finalizzata e interconnessa a una relativa possibilità di lettura, lettura come elemento intrinseco alla sua stessa ragione di esistere come attività e vocazione, qualcosa di attivo mirato a una risposta o reazione, alla necessità di uno sguardo passivo ma anche attivo, con il quale relazionarsi, e attraverso il quale trovare gli stimoli per continuare a scrivere, ma sempre in balìa di un altro essere umano che in qualche modo diriga il nostro movente e ci consoli o ci condanni. Possibile.
In soldoni: quando si scrive si sognerà quasi sempre, a qualsiasi livello, di essere letti, ascoltati, anche un po' amati, solo per gioco. Di far sì che parte del tempo e della dedizione profusi in questa faticosa attività, si prenda anche del tempo da un altro, che senta di restituire anche quella nostra dedizione e fatica con il suo ascolto, il suo sguardo.
Ma si scriverà soltanto per provare la sensazione sospesa e irreale di questo sogno, spesso irrealizzabile, che potrebbe consolare quanto se non più dell'essere letti? O esclusivamente per realizzare in pieno e a tutti costi questo sogno? Come se la realizzazione di questo sogno fosse l'unico reale significato, l'unica ragione d'essere del mio scrivere, della mia vocazione allo scrivere? Il suo senso, la sua genesi, il suo movente?
Ma in fondo, mi chiedo ancora: senza questa realizzazione, l'atto dello scrivere potrebbe essere giustificato come qualcosa di prezioso, di importante per la mia vita e per la mia maturazione interiore, anche senza la certezza d' ascolto diretto di un lettore, e di un suo consenso, senza la possibilità di convincere il suo sguardo – o carezza di sguardo – a posarsi sulla mia pagina? Scrittori veri e realizzati saranno allora tutti coloro che cattureranno occhi, interessi, attenzioni più e prima degli altri, rispetto a tutti quelli, irrealizzati, che non riusciranno a condividere con nessuno i propri scritti? Sarà quello il valore di uno scritto? La sua velocità e docilità di interazione? Secondo questa linea non basterà scrivere più o meno bene, quindi, o possedere nel proprio intimo questa vocazione, ma carpire invece e a tutti i costi, l'attenzione di chi legge il più possibile verso il proprio mondo espressivo, che senza quest'attenzione sollecita non avrebbe ragione d'essere? È proprio così, allora? E infine: sarà merito della mia scrittura e della profondità della mia vocazione o sottomissione a scrivere, se la stessa sarà condivisa con più facilità e successo rispetto a quella degli altri, quella irrealizzata, secondo i canoni della condivisione, o invece il merito lo dovrò alle caratteristiche della mia persona, intendo alla mia storia, alle mie abitudini, alla ricchezza e alla ricercatezza dei miei contatti, delle mie frequentazioni? Del mio successo anche da non scrittore, intendo. Possibile che uno scrittore, o persona dedita alla scrittura, molto amato in partenza come persona, al di là delle sue parole scritte, condividerebbe con la stessa facilità del suo romanzo un successo schiacciante nelle sue relazioni, per una svariata serie di ragioni, per cui sarà circondato da consensi,  perché ogni giorno e ogni sera avrà una casa, e quindi una vita, piena di amici che lo amano e gli riscaldano il cuore, una terrazza che dà su di un panorama mozzafiato, una sorella maggiore con un culo grandioso e  per finire la scheda Premium per le partite di serie A? Una persona che raccoglierebbe la tensione dell'orecchio appena prima che apra bocca? Che per ogni passo incontra sorrisi, consensi, e che è immerso nella bellezza e nella ricchezza delle relazioni, per le sue caratteristiche, la sua natura o anche vocazione alle relazioni e a quel certo magnetismo contemplabile nelle relazioni? Possibile che qualsiasi cosa questo signore faccia o proponga sarà ascoltata e valorizzata per il successo relazionale pregresso della persona nel suo insieme? Come per il calore delle sue relazioni umane, vissute e ormai stagionate senza il filtro misterioso della parola scritta, per esempio? Per quanto le abbia coltivate nel tempo, da sempre, con grande cura, dedizione e serietà? E ponendo il tutto anche su particolari campi e ambienti professionali? Attenzione, che non penso che questo sia un delitto, assolutamente no! È una semplice condizione. Stiamo soltanto ragionando sulla possibilità di una condizione. Senza giudicare o sentenziare, naturalmente. Stiamo cercando di esplorare le condizioni e le connessioni di un prototipo, di una possibile e immaginaria persona, e del suo mondo che in partenza lo ascolta, lo elegge e gli sorride, al di là dell'esercizio o della sua presunta vocazione di scrittore. Non parlo di un personaggio pubblico o famoso. Ma di una persona come tante, che ama scrivere e nello stesso tempo vive una vita organizzata in un certo modo.
Un altro stop!
A questo punto comincerei a mettere ordine, credendo che si possa considerare una costante, anche per i più scettici e solitari asceti della scrittura, l'importanza del solo pensiero di uno sguardo, che possa incontrare il frutto delle proprie parole, in qualsiasi modo questo avvenga. Questo rapporto con il buio di questo sguardo, con la carezza di uno sguardo, direi, personalmente ha accompagnato fin dall'inizio la mia dedizione allo scrivere e anche il rapporto con la mia solitudine dello scrivere, che è un altro fattore essenziale della mia esperienza. Ho sempre pensato alle mie parole e a uno sguardo lontano, o forse vicino, a cui queste parole in un certo modo sarebbero forse un giorno arrivate. Uno sguardo che poteva e potrebbe includerne centinaia. Un elemento attrattore e silente che in qualche modo avrebbe operato dei cambiamenti nelle mie scelte, perché era altro dal mio. Non era me, ma era qualcosa di esterno e quindi di estraneo al rapporto che il mio sguardo aveva con la genesi e il mistero delle mie parole scritte in solitudine, senza testimoni vivi al di fuori di me.
Scrivere o pensare di scrivere unicamente affidando la fatica immane di quest'operazione, solo al mio sguardo, vorrebbe dire perdere tutta la tensione e il mistero dello slancio, anche di un solo pensiero immmaginato verso un possibile ipotetico destinatario. Dal momento che il mio sguardo non sarà mai completo e accattivante quanto quello di un altro. Direi anche appagante, solo come uno sguardo estraneo può esserlo nei confronti di un nostro pensiero scritto.
Lo scrivere è come l'amare. Ha bisogno sempre di un altro. L'amore non esiste da solo. Anche l'amore per Dio, ha bisogno di Dio, anche del silenzio o del vuoto lasciato da Dio, ma di un altro elemento che sia esterno a noi, al nostro esser soli nella scrittura dei nostri segni. Credo che sia fondamentale soffermarci su questo passaggio. Il rapporto con la sensazione di questo sguardo altro, è una sorta di imprescindibile elemento vitale, che potrebbe condizionare profondamente, nel bene  e nel male, il senso di questo intento e lo sviluppo della nostra scrittura, del nostro modo di sentirla e di attraversarla. Se credo di conoscere chi si cela dietro lo sguardo di chi vorrei che mi leggesse, (non credo che tutti gli sguardi siano uguali. Per ciascuno scrittore vi saranno sguardi più importanti, incombenti, davanti ai quali ci si sente forse più fragili, o anche più importanti), potrei optare nelle mie scelte, a una sorta di restringimento severo dei mei orizzonti e possibilità, in modo da confezionare su misura quello che piace, le luci preferite da quello sguardo amico che incontrerà i confini delle mie parole. Intrattenermi quindi dentro un certo gusto, avvicinarmi a quello che conosco, di profondo o anche di superficiale o di quello che immagino e sogno di captare da quello sguardo, che già immagino posato sulle mie parole, proprio mentre le scrivo. Questo significherebbe orientare il mio sforzo creativo in una missiva che vada dritta verso un certo territorio, con determinate latitudini, temperature e caratteristiche. Altrimenti quello sguardo non si poserà più sulle mie parole, si stancherà e si sposterà altrove. In un territorio diverso, più amico, direi. Secondo questo ragionamento, quindi, per chi scrive sul serio, e conosce sguardi di persone amiche con una certa profondità, potrebbe avere garantita l'attenzione, la fiducia e il necessario incantamento amico, che è alla base del patto misterioso di alleanza tra uno scrittore e il suo lettore. La fiducia. Una sorta di fiducia incondizionata, legata al fatto che quelle parole sono misurate su una certa caratteristica, una particolare sensibilità. Potrei lavorare a un racconto, imponendomi di organizzarlo per lo sguardo amico, a cui sono certo andrà, e accontentare quello sguardo e nell'accontentarlo trovare il mio senso, il mio appagamento, e quindi ritrovare anche un rapporto diverso con la mia creatività, sapendo che su questa linea attraverserà dei confini sicuri. E allora mi direi: sono stato bravo, in fondo. Scrivo, ma non solo per il mio sguardo, ma per quello di un altro, che sa di potersi fidare ciecamente delle mie parole, dal momento che le mie parole conoscono le sue luci, le sue inclinazioni, la sua sensibilità, e non potranno mai deluderlo o abbandonarlo. Quindi incontro con il frutto anche acerbo o non perfetto di un mio scritto, un altro sguardo, ma per trattenere questo sguardo, che in fondo conosco, la mia scrittura dovrà adeguarsi alle sue scelte, alla sua vita. Sarà lo sguardo del mio primo lettore a condurmi. Lo accontenterò e lui mi proclamerà scrittore. E da quel primo sguardo, potrei ottenerne a milioni, basterà che il mio scritto disegni cose belle da guardare. Che impari dove si posino gli sguardi degli altri, sia molto attento a cogliere le espressioni degli occhi di fronte ai colori, e in questo modo potrò già selezionare i toni e i cromatismi delle mie prossime tele. Poco a poco la mia scrittura avrà il colore adatto per lo sguardo destinatario. Ma questo sguardo destinatario non sarà arrivato dal nulla. Dovrò sempre fare riferimento ai primi occhi, a cui ho dedicato le mie parole, che a loro volta mi presenteranno altri occhi, con cui cercherò di centrare lo stesso effetto, sempre a condizione di battere territori amici, con una scrittura amica.
È questo lo scrivere? È questo il leggere? Ma davvero?
Con queste due domande, concludo la seconda parte di questo tortuoso percorso sul senso dello scrivere  soprattutto sul senso del pubblicare. Sto cercando di farmi luce anche io, mentre mi conduco con lentezza in avanti nel tema, dal momento che la situazione non è poi così semplice, come in apparenza potrebbe sembrare.
Alla prossima:








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