martedì 21 febbraio 2017

Premi letterari


Competere con la scrittura non credo abbia un gran senso. Così come non credo abbia un gran senso sottrarsi a priori a circostanze dove si ha la possibilità di esplorare le dinamiche della competizione tra scrittori e tra libri o scritti inediti. La questione è complessa. Il punto fondamentale è il rapporto che si ha con il proprio mondo espressivo, prima, durante e oltre questa sorta di gara, quando ci si azzarda a prendervi parte.  Il rapporto con l'organismo fragile della creazione. 
L'atto dello scrivere trascende, a mio parere, uno stato definito e permanente, quindi la cristallizzazione di un certo valore, di una certa identità, ma è qualcosa in continua progressione e mutazione, anche quando l'opera è compiuta, ed è stato messo l'ultimo punto all'ennesima bozza e l'editor ha pronunciato la sua benedizione. Ma in fondo un libro è un processo infinito, che non è fermo e afferrabile per essere incastonato in uno standard di valori, più o meno astratti, pur nella loro evidente concretezza. Un processo emozionale e profondo dove una delle mete più ambite è quella del perdersi. Il perdere la rotta, la strada di casa, ma cercando sempre un punto dove tenersi d'occhio. Una prospettiva nella quale inquadrarsi. In queste personalissime dinamiche, – dove in fondo il procedimento e l'atto in sé della scrittura assume già una sua valenza, una sua connotazione, al di là di quello che potrebbe avvenire in conseguenza di quest'atto misterioso e a volte inutile – la misura o la forza di tutto questo, di quello che potremmo chiamare risultato, difficilmente sarà inquadrabile nella sua giusta prospettiva, nella sua totalità. Ecco perché i premi letterari, i concorsi, anche quelli molto importanti, colgono a volte solo la punta, la zona superficiale di un processo molto più ampio e articolato, dove l'opera giudicata non è vista ma appena intravista, spesso nemmeno gustata ma solo addentata nel suo bordo – questo quando non avvengono particolari condizionamenti, che non hanno nulla a che vedere con l'opera candidata in oggetto e con il suo valore.
Intanto lo spirito di partecipazione ai premi, quindi a una certa logica o mania della competizione, deve sradicarsi dall'idea di attendere da quella particolare sentenza una sorta di certificato di garanzia, che attesti che si sia fatto qualcosa di molto valido. Se il valore sarà proporzionato alla quantità di premi e di riconoscimenti ottenuti da un certo scritto, o se si partecipa ai premi per attestare il valore della propria opera, attestarlo a se stessi, come conferma che si sia fatto nel modo giusto, credo che qualcosa allora non funzioni. Non escludo che ciascuno scrittore abbia in alcuni momenti desiderato partecipare per poi primeggiare, quindi essere consacrato con la sua scrittura, con la sua opera, superiore a un altro o a tanti altri, quindi valorizzato per i meriti del suo linguaggio, ma non credo che alla fine sia quello il senso del suo viaggio. Un buon viaggio non si dimostra, ma si compie nel silenzio. Nel suo infinito non ci sono voci, sguardi e testimoni. Non credo nemmeno che alcune opere possono confrontarsi tra loro, in merito al loro valore, specie se si orientano su parametri e territori costituzionalmente dissimili. Uno standard di eccellenza, con le voci che decretano un valore a ogni sezione di uno scritto, analizzandolo come un reperto autoptico, non coglierà mai l'ineffarrabile della sua progressione e regressione costante, l'intimità della vita e del suo spasmo, con i suoi riflessi, le sue difficile risonanze, gli incantamenti contorti dei suoi strani miraggi. Non credo, allo stesso modo, che il valore non possa mai gareggiare. Ma non è nella gara che debba essere acclarato il valore autentico di un'opera letteraria, ma solo una sua idea. Credo che la validità di un certo libro non abbia numeri e non sia frutto di un processo ordinato, dove si possa allineare e confrontare scientificamente con gli elementi di un altro, decretando poi un giudizio di merito o di demerito. Non è così facile. 
Fatto sta che continueranno a esistere premi letterari e questo non sarà sempre un male. La condivisione di un certo discorso, gli stimoli e la tensione della gara non sono sempre dei fattori negativi, per niente. A volte è divertente mettersi in gioco, ma in uno spirito che non deve consacrare a quell'esperienza dei valori assoluti, ripeto, che forse non saranno mai riconoscibili dall'esterno, se non sono stati colti durante l'intero processo di gestazione e di relativa immersione in un discorso creativo.
Partecipando e confrontandomi in diverse competizioni, – lo faccio spesso con i lavori inediti, per rodarli, ma anche per divertirmi, – ho sempre notato che gli scritti che amo di più sono quelli che fanno più fatica ad emergere in una selezione. Ho avuto dei riconoscimenti, anche importanti, con lavori che non ritenevo particolarmente validi, almeno non quanto quelli che hanno avuto meno spazio e fortuna. Esiste un'impermanenza di fondo, ma l'aspetto più importante è che un percorso artistico e creativo non sarà fatto di elementi quantitativi, di un insieme di tasselli di pregio che possono incontrarsi con più frequenza in una certa opera anziché in un'altra, ma di tante traiettorie diverse, alcune che sono senza peso, come delle scie, anche invisibili, che faranno allo stesso modo la loro differenza. Esistono delle componenti invisibili all'interno di uno scritto, che non potranno mai essere sezionate su di un banco di prova, (molte volte si parla della "prova" di uno scrittore, accomunando il contenuto della sua voce a un termine intrinsecamente dimostrativo e performante), ma che incontreranno determinate sensibilità, in determinati momenti. In effetti il misurare il valore di uno scritto lo si può fare, ma senza che vi sia innescata una numerica o la tensione fobica di un primato, ma solo desiderando, come premio, la bellezza e il mistero di un incontro con un altro essere umano. Anche se questo incontro accade con un solo lettore, è già un miracolo. E non esiste premio più grande al mondo, secondo me.














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